Dall’Alcatraz di via Valtellina alla “casa del Blues” di via Sant’Uguzzone, al confine con Sesto San Giovanni: entriamo nella Blues House della famiglia Fierro
Nei pressi del Naviglio Martesana in viale Monza, al confine tra Milano e Sesto San Giovanni, nasce nel 1992 la “casa del blues” ovvero la Blues House: «In questo luogo prima c’era un’officina, credo montassero strutture per camion: c’è ancora il carroponte a vista e il tipico pavimento a piastrelle rosse. Il proprietario storico era un amante del blues e aprì questo locale inizialmente per ospitare gli estimatori della cosiddetta “musica del diavolo”», introduce Stefano Fierro (42), alla gestione della Blues House dal 2008 insieme ai suoi fratelli.
«Prima dell’era di aperitivi o dj set, a metà anni ’90, il blues era ancora la musica privilegiata dell’intrattenimento notturno milanese e costituiva l’80% della programmazione», spiega Fierro, «poi inevitabilmente gli anni passano, le generazioni cambiano e con loro l’identità dei consumatori. Il locale nei tempi d’oro lavorava a pieno regime dal martedì al sabato, oggi noi apriamo prevalentemente il week end: la musica dal vivo, a parte il caso dei grandi nomi, è considerata di nicchia da molti ventenni e trentenni che, mediamente, prediligono altri tipi di eventi». La fama del locale è sempre stata legata ad artisti blues, tradizione che Stefano e i suoi fratelli hanno comunque cercato di mantenere al passaggio di gestione: «Vidi suonare per la prima volta in un paesino del lodigiano Matthew Lee, pianista rock’n’roll in stile Jerry Lee Lewis, sei anni fa: noi lo abbiamo invitato e ospitato qui fino allo scorso settembre e oggi è in esclusiva al Blue Note, così come Sagi Rei».
La competenza musicale di Fierro non è quella di un musicista ma di un “consumatore medio di musica”: «Prima della Blues House ho lavorato in un’azienda di sistemi di sicurezza e con la crisi mio padre decise di reinvestire in un’attività di cassetta in questo settore. I primi mesi sono stati difficili al punto che ci siamo visti costretti a cambiare strategia aziendale nei confronti di molte band. Il modus operandi della gestione precedente stava decadendo con la crisi, per questo abbiamo introdotto il metodo anglosassone, il door deal, ovvero una retribuzione in percentuale agli ingressi della serata. In questo modo purtroppo abbiamo perso l’80% dei musicisti che collaboravano con la Blues House ma ne abbiamo recuperati altri, scovandone anche di migliori. E chi ci è rimasto fedele ha comunque visto aumentare il suo pubblico».
Non è facile sostenersi per chi vive di musica dal vivo oggi anche se secondo Fierro non è tutta colpa della crisi: «Bisogna sfatare il falso mito del “lavoro in nero dovuto alla situazione difficile”, molti accettano condizioni ingiuste senza dire di no. Per contro non si può più guadagnare cifre importanti al netto a fronte di una serata live: mai come oggi fama, credibilità e di conseguenza cachet si costruiscono poco per volta. E anche la tanto demonizzata SIAE è sempre esistita, d’altra parte “fare musica” non significa rimanere indenni ad una legge di mercato. Adattare un modello di business alla musica non è un crimine come pensano alcuni ma un modo sensato di collaborare: capisco che non sia un momento favorevole per i musicisti di professione ma, garantisco, neppure per chi deve gestire un locale».
I concerti della Blues House sono caratterizzati da esibizioni dal contesto piuttosto informale: «Rispetto a tanti locali “contenitori” senza personalità la nostra estetica è un po’ vintage, in stile pub americano con luci soffuse, bancone lungo e, al centro dell’attività, il palco. Offriamo prima di tutto intrattenimento musicale in controtendenza alla ristorazione con musica dal vivo: tavola fredda, birre e cocktail a servizio del live e non viceversa». E fedele a tanta estetica anche lo stile dei concerti: «Alle 23 abbassiamo le luci e lasciamo il palco alle band che suonano un paio d’ore per un pubblico che ha voglia di bersi una birra e ballare in sala alla vecchia maniera».
Da tempio del blues in cui si sono esibiti anche i Creedence Clearwater Revival nel 1997, gli Animals, i Ten Years After e Phil X (chitarrista dei Bon Jovi) per citarne alcuni, oggi la Blues House è una location per concerti abbastanza aggiornata alle tendenze contemporanee: «Se ci sono band “emergenti” come i Blastema o Michele Cortese il locale è prevalentemente affollato da fans ma la maggior parte della nostra programmazione è costituita da cover o tribute band, composte da veri professionisti come il trio di Gennaro Porcelli, musicisti di Bennato o la Tribute band di Van Halen costituita dai membri del gruppo di Gabriele Fersini, attuale chitarrista di Antonacci. Legati alla Blues House anche gli Anderson Council, formazione di 12 membri che omaggia i Pink Floyd con uno show curato persino nelle luci».
L’attenzione per le tribute band riaccende inevitabilmente la polemica in merito a chi sostiene che le cover rubino il palco a chi propone repertori di inediti e Fierro per sua esperienza afferma: «Sento molto astio tra musicisti su questo argomento. La verità è che c’è chi non ha i numeri per certi palchi: è più difficile che un pubblico generico venga ad ascoltare semi-sconosciuti che fanno inediti trattenendosi fino a fine serata. Anche se ammetto di essermi dovuto ricredere in alcuni casi su certi artisti che ho inizialmente sottovalutato e che poi hanno invece dimostrato il loro talento. Può capitare talvolta e sono contento per chi è riuscito a fare strada». Con lucidità poi aggiunge: «Ho imparato col tempo a scegliere oculatamente chi far suonare e quando i clienti lasciano anche solo un bel commento su facebook dopo aver passato la serata alla Blues House i conti si ripagano sempre, in tutti i sensi. Magari non mi arricchisco ma, dopo ogni concerto, torno a casa sempre sereno, il risultato più importante».