La firma italiana che attraversa l’oceano
Foggiano di origine, americano d‘adozione, Mario Fanizzi ha 31 anni ed attualmente lavora in Italia pur mantenendo delle collaborazioni con “Serenity West Studio” di Los Angeles. In passato ha lavorato con Carlos Santana, Tom Jones, Katy Perry, Boys Like Girls, Jason Derulo, Dick Van Dyke, mentre in Italia ha scritto per Renato Zero ed Annalisa. Essere autore e producer per lui significa creare continuamente delle realtà che bypassino la ragione, le definizioni e le parole.
Quando e come hai capito che la musica sarebbe stata una parte così importante della tua vita?
Da sempre! Per me non esistevano giocattoli ma solo strumenti musicali; avevo 4 anni quando suonai ad orecchio la colonna sonora del film “Ghost” e a 5 anni presi la prima lezione di piano.
Hai vissuto 10 anni negli Stati Uniti. Cosa ti ha portato lì?
A 19 anni, dopo aver dato l’esame di ottavo anno di pianoforte, andai a Boston per un’audizione al Berklee College Of Music e vinsi una borsa di studio. Tutto è iniziato come un gioco. Non avrei mai pensato che sarei riuscito ad entrare nel college di musica più famoso del mondo. Feci l’audizione di nascosto, senza neanche dirlo ad i miei genitori.
Che esperienze “Made In USA” musicali hai fatto?
Appena finito il Berklee mi sono trasferito a Los Angeles dove ho avuto il privilegio di lavorare con artisti come Dick Van Dyke, Tom Jones, Katy Perry, Ne-Yo, Lp, Carlos Santana, Jason Derulo e molti altri..
Che differenze ci sono tra l’universo musicale americano e quello italiano?
Il mercato americano si declina in più generi musicali ed ha emittenti radio dedicate. Per quanto riguarda il mainstream direi che il pop americano si concentra più sulla sezione ritmica, prestando più attenzione al sound design di un rullante piuttosto che una cassa e sperimentando più incastri ritmici ed armonici. In Italia ho notato che tendiamo ad essere molto conservatori.
Quali sono gli artisti italiani e internazionali per cui ti piacerebbe scrivere?
Mi piacerebbe lavorare con Biagio Antonacci e Jovanotti. A livello internazionale direi senza dubbio Bebe Rexha, Dua Lipa e Drake.
Come componi i tuoi brani e quali sono le tue fonti d’ispirazione?
In realtà ho un approccio sempre diverso: mi può capitare di essere al piano e di buttare giù delle melodie. Altre volte mi capita di creare un’atmosfera con dei suoni al computer in sala e mi lascio guidare dalle sensazioni. Mi è anche capitato di creare melodie sul ritmo dei miei passi, registrando subito delle intuizioni sul cellulare. L’ispirazione viene sempre da quello che senti di pancia in quel determinato momento e da tutto ciò che ti circonda.
Ricordi la prima volta che hai sentito un tuo pezzo in radio?
In America mi è capitato per la prima volta con la mia band, i Boys Like Girls. In Italia invece nel 2016 con il brano “Perché non mi porti con te” di Renato Zero. Quest’anno, poi, è stato stupendo ascoltare “Un domani” di Annalisa ovunque andassi.
Che consigli daresti ad un interprete che si approccia ad una canzone scritta da te?
Di essere se stesso. Non c’è cosa più bella per un autore che ascoltare il proprio brano cantato da qualcun altro e sentire ciò che di personale mette l’interprete.
Che percorso ha fatto Mario per diventare l’autore di oggi?
Mi ha aiutato tantissimo l’esperienza americana. Studiare armonia e arrangiamento con i miei miti: Mitch Haupers, arrangiatore degli Jellow Jackets e Ray Santisi che suonava con Bill Evans. Mi ha aiutato a capire vari mondi sonori. Nasco come pianista, ho studiato musica classica e jazz. Mi piace ascoltare davvero di tutto: da Oscar Peterson a Bruno Mars. Penso che mi caratterizzi la diversità di generi musicali che ho attraversato durante il mio percorso.