Tre giorni dedicati anche quest’anno alla musica indipendente italiana: dal 28 al 30 settembre a Faenza puntuale la nuova edizione del MEI – Fatti di Musica Indipendente. Un bilancio col patron Giordano Sangiorgi nell’intervista di Musica361.
Il MEI è la più importante manifestazione di fine estate dedicata alla scena musicale indipendente italiana da quasi 25 anni. Fin dalla prima storica edizione il MEI ha rappresentato un vero trampolino di lancio per artisti indipendenti poi diventati veri pilastri delle nostre classifiche dagli Afterhours ai Bluvertigo, dai Marlene Kuntz ai Baustelle, dai Negramaro ai Marta sui Tubi, fino a premiare emergenti oggi considerati punte di diamante del nostro nuovo panorama musicale come Ermal Meta, Lo Stato Sociale, Ghali, Zibba, Mirkoeilcane e Motta. Dopo aver assegnato il Premio Speciale MEI ai Lacuna Coil e il Premio Artista Eclettico dell’Anno a Gio Evan, è stata annunciata anche la prossima consegna del premio PIMI 2018 dedicato all’artista indipendente dell’anno ai The Zen Circus “per la loro carriera ventennale all’insegna della coerenza e della continua ricerca di qualità musicale e testuale all’interno del circuito indipendente fin dal primo album About Thieves, Farmers, Tramps and Policemen (1998, con il nome The Zen)”. Al MEI verrà assegnato per la prima volta quest’anno anche il PIMI Extra/Progetti esclusivi a La mia generazione di Mauro Ermanno Giovanardi, album che ha visto la partecipazione di molti ospiti illustri: «Un appassionato omaggio culturale e non solo artistico alla scena indipendente/alternativa italiana degli anni ’90 base essenziale e imprescindibile», ha specificato Giordano Sangiorgi, fondatore e direttore del MEI.
2018: qual è oggi la situazione della musica indipendente in Italia?
«Molto significativa in termini di produzione e classifiche: la musica indipendente è riuscita a conquistare più di un terzo nel mercato musicale in Italia e nel mondo. Tante sono le produzioni nate grazie agli investimenti del “made in Italy da casa”, sempre più spesso piccole etichette, grande elemento culturale e commerciale insieme che bisogna continuare a valorizzare e supportare al massimo. Qualitativamente, rispetto alla dimensione indipendente di un tempo, ci sono stati radicali cambiamenti: gran parte dell’odierna scena IT POP ha oggi origine da quella indipendente in esponenti come Calcutta, colui che, sconosciuto, aprì il MEI 2015 a Roma quando festeggiammo i 20 anni, parallelamente ai successi del nuovo percorso cantautorale indie rock di Motta. Sono artisti che hanno contribuito a svecchiare la musica del nostro paese, mettendo all’angolo produzioni mainstream per proporne nuove più capaci di intercettare il gusto dei giovani. E per i giovanissimi il periodo è ancora più fecondo se si pensa ad artisti che producono vera musica di rottura con la nostra generazione, sia dal punto di vista musicale che dei contenuti, col risultato di invogliare quei teenagers che sembravano interessati solo ai cuochi a presenziare invece a migliaia di concerti. E proprio premiando Ghali abbiamo riscontrato che molti giovani si stanno riavvicinando alla musica grazie anche ad artisti del mondo hip hop, rap e trap».
Il MEI però è da sempre rock oriented: come se la passa l’indie rock e non a caso nell’annata di un anniversario come il ’68?
«Dopo 50 anni il rock complessivamente sta subendo un arresto per motivi di natura economica, diminuendo le vendite di chitarre, bassi e batterie e privilegiando il mondo virtuale a quello sociale, compresa l’inclinazione da parte degli artisti di vendersi come singoli artisti piuttosto che come band, assecondando così l’economia dei gestori dei locali in termini di spazi e costi. A queste motivazioni si aggiunga un invecchiamento biologico del rock che vede la generazione sessantottina come dinosauri, una forma di resistenza partigiana della musica: bisogna rassegnarsi al fatto che oggi esistano nuovi partigiani che hanno voglia di innovare ancora di più. C’è insomma un inevitabile calo di interesse e se oggi il rock classico non è proprio sepolto, come si profetizzava a metà degli anni ’90, è stato merito della spinta indipendente americana, inglese e di tanti italiani che ne hanno rinvigorito l’ossatura fondamentale come Omar Pedrini, Manuel Agnelli o anche gli Zen Circus che rappresentano oggi un nuovo gruppo di riferimento».
“Indipendente” oggi ha ancora il significato di “duri e puri contro ogni logica di mercato purché fedeli a se stessi”?
«Mentalità superata (sorride). Oggi i giovani producono sperando di misurarsi subito con i grandi palchi, se un artista indipendente va a Sanremo non ci sono più le polemiche di un tempo, da questo punto di vista si è diventati per fortuna molto laici. É dignitoso suonare ovunque purché con identità e coerenza: l’importante è non inciampare in compromessi che possano minare il proprio percorso, altrimenti si è destinati a diventare un prodotto plasticato mainstream di breve durata. Questo è l’elemento nel DNA dei talent: le Lollipop ad esempio dove sono finite? Ha fatto più carriera chi ha seguito una scena indipendente fatta di autoproduzioni e live mangiando la polvere, rispetto a chi ha cercato la scorciatoia del talent. E questo è un fatto».
Talent show e realtà indipendenti: qual è il rapporto oggi?
«Apprezzo molto coloro che rinunciano a partecipare ad un talent perché dimostrano coraggio e coerenza. Apprezzo però anche Manuel Agnelli che ha scelto di diventare giurato portando all’attenzione di un pubblico nazional popolare la realtà del rock indipendente alternativo per molti ancora sconosciuto. Il talent show è un programma televisivo che si occupa di far circuitare canzoni e autori di quelle case discografiche interessate a quel tipo di programmi ma che – dati alla mano – per il 97% dei casi sono poi disinteressate alla carriera di coloro che vincono. Ho visto penalizzati giovani artisti indipendenti di talento che hanno avuto, a mio avviso, un piccolo “danno” proprio per essere emersi in quel contesto. Come accade a Sanremo quando, per certi versi, sarebbe quasi meglio arrivare ultimi o ricevere il premio della critica».
Cosa la rende più orgoglioso tra i traguardi raggiunti dal MEI in questa edizione?
«Sicuramente aver realizzato un gradissimo festival con un budget fino a 25 volte minore rispetto a quelli più noti in Italia pur posti allo stesso livello. E poi aver tenuto sempre l’attenzione esclusivamente sulla scena indipendente ma senza chiudersi in recinti o nicchie, rappresentando un polo attrattivo rispetto alle nuove leve. Anche se siamo nell’era di YouTube, per capire in anticipo e dal vivo quali siano le novità tra i giovani bisogna ancora venire al MEI: è riscontrato ormai che da noi, un anno o sei mesi prima, si scopre sempre qualcosa o qualcuno che poi si ritrova a distanza di tempo nel panorama artistico nazionale».
Un consiglio per chi ancora oggi sogna di vivere di musica, magari indipendente…
«Essere al 50% artisti e al 50% imprenditori di se stessi. Rispetto agli ultimi 15 anni c’è stato un calo delle risorse dell’industria discografica pertanto è sempre più fondamentale capire come ottenere i propri diritti sia di autore che editore tra royalties e dischi privati, come rimanere sul mercato attraverso i meccanismi dei social in modo da avere un ritorno in termini di utenti per poi vendersi ai live, offrire sempre proposte migliori considerando le regole che cambiano e partecipare a bandi impensabili per un’artista fino a 20 anni fa ma che oggi invece sono essenziali. Bisogna avere “genio e regolatezza”: siamo in una grande epoca di transizione nel mondo musicale, cambieranno ancora e più spesso i modelli di diffusione, di distribuzione e di consumo compresi i live, così come è accaduto al concetto di produzione abbinato ad un supporto fisico che oggi viene meno. É la vittoria delle autoproduzioni sulle major, come alle origini del punk quando si autoproducevano le cassette: è in qualche modo la rivincita della musica indipendente».