Per festeggiare gli 80 anni compiuti lo scorso 17 agosto, Giulio Rapetti, in arte Mogol, ha recentemente pubblicato l’autobiografia «Il mio mestiere è vivere la vita». Musica361 ha recensito il libro per voi.
Emozioni, 29 settembre e Una lacrima sul viso: solo alcune canzoni che ciascuno di noi, più o meno consapevolmente, ha ascoltato almeno una volta nella vita.
In esse si ritrovano parole ed espressioni diventate patrimonio comune, non solo di una generazione: in questo volume vengono rievocate e raccontate da uno dei parolieri più importanti della tradizione italiana e accompagnate da straordinari ricordi, curiosi aneddoti, incontri memorabili, vivide emozioni e foto d’archivio.
L’affettuosa prefazione del giornalista Clemente J. Mimun e il contributo di Tony Renis introducono un viaggio che comincia malinconicamente da via Clericetti a Milano nel 1936: «Sono cresciuto in una Milano molto diversa da oggi, in un mondo molto più umano e autentico».
La bocciatura all’esame di stato al termine delle scuole elementari, e per di più per essere andato fuori tema, non sembra scoraggiare il giovane Giulio: nel 1954, a 18 anni, entra a lavorare in Ricordi, prima con funzione di “computer”, come lui stesso dice, poi controllando le versioni italiane di canzoni straniere. «Ne lessi moltissime e cominciai anche ad inserire alcune correzioni, così pensai di cominciare a scrivere testi; ci presi gusto diventando piuttosto bravo e decisi di dedicarmi solo a quello».
Un giorno nel ’56 propone ad Adriano Celentano uno dei suoi primissimi esperimenti, la canzone Piccolo sole: «Emozionati, entrammo nell’ufficio di mio padre Mariano, allora dirigente in Ricordi, e gliela cantammo. Lui disse qualcosa come “Va bene” e poi, rimasto solo con me sbottò: “La canzone fa pena e quello è stonato: ma che volete da me?!”».
Nel frattempo si occupa anche di promozione e occasionalmente di scouting: così racconta l’ironico incontro al Santa Tecla di Milano con un giovanissimo Giorgio Gaber che, dopo l’offerta di Mogol a firmare un contratto in Ricordi, non si presentò credendo si trattasse di uno scherzo o il rapporto con Mina conosciuta ancora col nome di Baby Gate. «Era la mia migliore amica. Trascorrevamo molto tempo insieme all’epoca. La nostra collaborazione durò per anni».
Nel 1959, quando gli pseudonimi erano piuttosto diffusi tra i compositori anche il nostro ne cerca uno nel tentativo di rendersi il più possibile indipendente, dovendo lavorare per diversi editori. Invia una lista di proposte alla SIAE che alla fine approva lo pseudonimo “Mogol”: «Non mi ricordavo nemmeno da dove l’avevo tirato fuori […] ero terrorizzato dall’idea di chiamarmi “Mogol”, suonava come un nome da fumetto. Nonostante tutto accettai di tenermelo, pensando che tanto non sarebbe mai diventato famoso».
E invece non solo vincerà il Sanremo 1961 con Al di là interpretata da Luciano Tajoli ma continuerà a scrivere per tanti altri, anche se speciale rimarrà la mitica collaborazione con Lucio Battisti.
L’incontro che cambia la sua vita e la canzone italiana avviene nel 1965 quando una collega gli presenta questo giovane musicista che gli fa ascoltare due canzoni. Leggenda vuole che il primo parere sia «Non sono granché», aggiungendo di ripassare qualche giorno più tardi per provare a scrivere insieme qualcosa di meglio. Battisti si ripresenta con una musica inedita e Mogol compone Dolce di giorno. Da allora ha inizio un sodalizio basato su una stima reciproca: «Tra noi si creò un rapporto profondo, riuscivamo a capirci bene, anche perché in qualche modo le nostre erano due mentalità completamente diverse che si integravano alla perfezione».
Più ci si addentra nella lettura e nella stesura dei testi, più si capisce il significato del titolo “Il mio mestiere è vivere la vita”, tratta dall’omonima canzone del 1978: «Attingo sempre alle mie esperienze personali, alla mia vita e ai miei principi. Se devo raccontare qualcosa devo averla vissuta in prima persona o vista vivere da qualcun altro». E si scopre così ad esempio che “le bionde trecce e gli occhi azzurri” della celeberrima Canzone del Sole sono quelli del primo amore, Titti: «Avevo cinque anni, lei sei. Era la bambina dell’appartamento accanto al mio».
Contenuti che hanno sempre più trovato forma secondo una tecnica precisa: «Nel corso degli anni, ho sperimentato una tecnica particolare […] e cioè una costruzione del testo analoga a un montaggio cinematografico che alterna immagini del presente e flashback, immagini di contorno e primi piani. […] nella melodia cerco il testo, le parole nascoste […] l’anima di quella musica per poterla esprimere a parole, perché quando questo accade si crea una sinergia emotiva molto potente».
Ispirazioni sempre più affinate nella composizione, al punto che spesso una canzone vedeva la luce in meno di un’ora come nel caso di Una lacrima sul viso, nata durante un viaggio in macchina insieme a Bobby Solo verso la sala d’incisione. Si capisce anche quanto potesse essere facile così partorire in una settimana un album intero, come è accaduto spesso anche nell’ultimo periodo con Battisti.
In una sezione Mogol coglie l’occasione anche per rispondere alle accuse di presunto fascismo quando a cavallo degli anni Sessanta e Settanta schierarsi politicamente veniva considerato un dovere e la musica non faceva eccezione: «Ci etichettarono come fascisti. E tutto perché non scrivevo canzoni come Contessa o testi che parlavano di falce e martello. Non so di preciso come nacque la cosa ma alcuni episodi vennero utilizzati in malafede per corroborare quest’idea […]. Per questo motivo consigliai a Lucio di non esibirsi più».
Si parla di Battisti ma c’è spazio anche per Luigi Tenco, Mario Lavezzi, Riccardo Cocciante, Mango e Gianni Morandi o star internazionali come Bob Dylan e David Bowie: «La mia carriera è fatta di sodalizi importanti e di lunga durata come quelli con Lucio e Gianni Bella, e di collaborazioni più saltuarie, addirittura a volte il tempo di una sola canzone come accadde con Rino Gaetano (Resta vile maschio, dove vai)».
E ancora accenni alla nascita dell’etichetta “Numero Uno”, alla Nazionale Italiana Cantanti, fino alla Fondazione CET, la sua scuola di formazione per musicisti, autori e cantanti.
Riflettendo sulla condizione della cultura popolare in Italia in preda ad un marketing che sempre meno spazio lascia alla creatività Mogol spiega: «Siamo passati da un discorso musicale legato alla qualità ad uno orientato esclusivamente al profitto e questo nuoce gravemente alla musica. […] Pensai che avrei potuto fare qualcosa […] e mi venne un’idea: avrei costruito una scuola in cui accogliere e formare autori, compositori e interpreti».
Da allora ancora oggi, a 80 anni, come scrive Mimun nella prefazione, Mogol “ha mille sogni e pensa solo al futuro”. E continua la sua battaglia per il diritto alla creatività artistica: «Nonostante il CET sia diventato la scuola per creativi e interpreti più importante d’Europa, se sarà ancora consentito alle radio e agli spettacoli televisivi di produrre dischi, firmando contratti editoriali e discografici e preferendo la notorietà alla qualità, temo che la cultura popolare sarà fortemente compromessa. Non vorrei fosse così ma probabilmente il futuro è alle nostre spalle».
Così si conclude un libro che, tra poesia e testimonianza, rappresenta una bella occasione per conoscere meglio non solo l’autore Mogol ma anche l’uomo Giulio Rapetti.