Musica a Teatro: Matteo de Mojana

Mi  piace ascoltare i suoni della natura, anche i più banali, il mare, il vento tra le montagne, i ruscelli, le cicale

Musica a Teatro: Matteo de Mojana
Matteo de Mojana – N.N. Figli di nessuno (Foto © Lorenza Daverio)

Nato a Milano nel 1989, è attore, doppiatore e musicista,

A diciannove anni è segnalato come giovane emergente al Premio Hystrio alla Vocazione, a ventuno si diploma con Luca Ronconi alla scuola del Piccolo Teatro, e a venticinque si laurea in filosofia presso l’Università degli Studi di Milano.

Debutta, ancora allievo, ne Il Mercante di Venezia di W.Shakespeare con la regia di Luca Ronconi, e nel 2011, sempre al Piccolo Teatro di Milano, lavora con Antonio Catalano in Gnam gnam…cibo sensibile.

Dal 2012 ad oggi recita in diverse produzioni del Teatro dell’Elfo (Alice UndergroundFrost/NixonIl vizio dell’arteMr. Puntila e il suo servo MattiL’importanza di chiamarsi Ernesto) diretto da Ferdinando Bruni, Francesco Frongia ed Elio De Capitani.

Nel 2013 è diretto da Laura Pasetti in Macbeth con la compagnia Charioteer Theatre di Edimburgo, nel 2015 recita in N.N. Figli di nessuno con la regia di Renzo Martinelli presso il Teatro i di Milano, e nel 2018/19 lavora con il Teatro Del Carretto di Lucca in Ultimo Chisciotte, diretto da Maria Grazia Cipriani.

Dal 2015 porta in giro per l’Italia il format teatrale Il Menu della Poesia.

Lavora come speaker e doppiatore per film, serie tv, pubblicità, documentari, cartoni animati, programmi televisivi, audioguide, videogiochi.

Parlami per iniziare del tuo rapporto con la musica in generale. Cosa ti piace o non ti piace ascoltare.

Ascolto un po’ di tutto. Da bambino mi hanno “educato” soprattutto alla classica e ai cantautori italiani, De André lo so tutto a memoria, i Queen li ho ascoltati a loop. Ho studiato pianoforte con un maestro patito di Chopin, ma ho smesso di studiare troppo presto, ora al piano sono un mezzo disastro, però ho continuato ad ascoltare tanta classica.

Musica a Teatro: Matteo de Mojana

Oggi gli unici cd che compro sono di cantanti o band indipendenti. Un gruppo che mi ha colpito molto sono i Guappecartò, sono campani ma credo vivano in Francia, fanno una musica gipsy rivisitata, è stato, il loro, l’ultimo concerto che sono andato a sentire prima del lockdown dell’anno scorso.

Sono ignorante sul jazz, ma mi piace anche quello, mi affascina enormemente il mondo dell’improvvisazione. Amy Winehouse mi sembra aver rappresentato una fusione interessante tra il jazz e la musica pop.

Poi in generale a me piace ascoltare i suoni della natura, anche i più banali, il mare, il vento tra le montagne, i ruscelli, le cicale. Ci trovo qualcosa di calmante. Purtroppo a Milano, dove vivo, c’è un grande inquinamento acustico.

Matteo de Mojana
Mr. Puntila e il suo servo Matti – (Foto © Laila Pozzo)

E il tuo rapporto con la musica sul lavoro?

Quando ero allievo al Piccolo, Luca Ronconi ci disse che nella nostra (eventuale) carriera di attori non saremmo quasi mai stati scelti per il nostro (eventuale) talento, ma per le nostre caratteristiche peculiari. Uno perché ha i capelli rossi, un altro perché ha la faccia da terrorista, un altro perché magari parla tante lingue…ecco, la mia chiave d’accesso al teatro è stata la musica: il fatto di saper strimpellare due o tre strumenti, e di cavarmela con gli adattamenti dei testi, mi ha reso un attore appetibile per certe produzioni.

Ho curato gli arrangiamenti e l’esecuzione dal vivo di canzoni in alcuni spettacoli del Teatro dell’Elfo, riprendendo musiche scritte da altri (dai Beatles a Britten, da Regina Spektor a Dessau…) e adattando parti del copione alle canzoni che si volevano inserire. Con alcune compagnie ho fatto solo l’attore, ma anche in quei casi credo che le mie cosiddette skills musicali mi abbiano aiutato a essere preferito ad altri.

Mi capita di usare la musica anche quando lavoro come doppiatore, quando ad esempio ci sono delle canzoni da eseguire. Capita soprattutto con i cartoni animati, e devo dire che mi diverto molto. Spesso si tratta di un compito non facile, perché non riceviamo quasi mai in anticipo il materiale e di conseguenza non abbiamo modo di studiare, bisogna imparare la melodia al momento ed eseguirla quasi subito.

Dal mondo anglosassone arrivano tanti prodotti che vengono distribuiti in Italia, e in cui si sente la grande cultura musicale che c’è in quei paesi. Negli Stati Uniti o in Inghilterra è molto difficile fare l’attore se non sai cantare, ballare o magari suonare uno strumento. In Italia invece abbiamo una tradizione attoriale più strettamente legata alla parola.

Oggi ti sembra trascurata la musica nel teatro soprattutto di prosa?

Come dicevo, se paragoniamo la scena italiana a quella di certi altri paesi non brilliamo certo per le capacità performative dei nostri attori. In Italia tendiamo a dividere gli ambiti in compartimenti stagni.

Se sei un attore non è scontato che ti vengano richieste competenze musicali. Se viceversa sei un cantante (pensiamo all’opera lirica) in teoria dovresti saper stare su un palcoscenico, ci sono corsi di formazione appositi, ma nella pratica si dà molta più importanza alla tecnica musicale che alla presenza fisica o alla recitazione.

Per quel che riguarda invece la musica intesa più come colonna sonora (escludendo, cioè, la performance dal vivo) non so dirti se la trovo trascurata. Piuttosto mi sembra che spesso se ne abusi per riempire dei vuoti. La musica fa subito “atmosfera” ma io credo che in teatro ogni scelta debba essere dettata da una precisa necessità.

Dico questo perché mi sembra che sovente si ricorra a un tipo di musica facilmente riconoscibile, che il pubblico associa automaticamente a un certo tipo di emozione, per guidare lo spettatore proprio dove si vuole che vada. Quante volte abbiamo sentito New Error dei Moderat per raccontare un momento di euforia? Quante volte è risuonata Also sprach Zarathustra per conferire solennità (o per ironizzare su quest’ultima)?

C’è qualcosa di insopportabilmente ammiccante e stucchevole, quando si cerca di commuovere in qualche modo il pubblico. Per me invece è più interessante il contrario: creare uno spiazzamento. Ai tempi di Arancia Meccanica probabilmente per uno spettatore era spiazzante associare Beethoven alla violenza e al sadismo; oggi questo tipo di contrasto è ampiamente sdoganato, quindi le scelte vanno fatte anche in base al contesto storico e alla sensibilità musicale diffusa.

Un regista che io apprezzo molto è Michael Haneke. Nei suoi film la musica è quasi inesistente, eppure il silenzio di certe sue inquadrature ha un suono infinitamente più inquietante di quello che avrebbero se fossero accompagnate da una qualsiasi partitura. Qui parliamo di cinema, ma credo che un discorso analogo valga per il teatro.

Matteo de Mojana
Alice Underground (Foto © Luca Piva)

Che ne pensi della musica usata nei laboratori? Aiuta l’attore o lo distrae?

Io non tengo laboratori, ma quando vi ho partecipato come allievo, la musica è stata usata parecchio. I miei insegnanti in accademia avevano le loro preferenze. Michele Abbondanza, che è stato nostro maestro di teatrodanza, aveva un debole per René Aubry, Maria Consagra invece, che mi ha insegnato movimento per l’attore, era affezionata a Yann Tiersen.  Se distrae l’attore è un bel problema.

Credo che sia diverso il caso di una sede laboratoriale, dove l’attore non è in fase performativa, sta studiando, sta cercando, e in questo caso la musica può essere uno stimolo, un suggerimento, e se poi lo porta su una strada sbagliata penso sia responsabilità sia dell’attore che del conduttore del laboratorio accorgersene e cambiare strategia.

Però ecco, in un laboratorio ci si possono permettere degli errori, anzi, si devono commettere errori, mentre sul palcoscenico il risultato dovrebbe essere consolidato; a meno che non ci si trovi in forme di spettacolo particolari dove si lavora a soggetto, o in interazione col pubblico…insomma, dove il copione non è mai completamente scritto.

E per quanto riguarda il pubblico pensi che lo aiuti o lo distragga? – Ha un’importanza drammaturgica?

Beh, se lo distrae è un bel problema, e mi rifaccio a quanto dicevo prima a proposito di scelte musicali ammiccanti. Non credo neanche che debba aiutarlo. Credo che sia un elemento di drammaturgia come gli altri, deve concorrere a mandare avanti il meccanismo dello spettacolo, esattamente come le scenografie, l’attrezzeria, le luci, gli attori, il testo…

Il teatro si può fare benissimo anche senza musica, come del resto si può fare senza attori. Dunque, se si sceglie di usarla dev’esserci un motivo, nulla può essere lasciato al caso.

C’è un problema di costi che impedisce sia utilizzato un compositore per gli allestimenti?

Le produzioni, ahimè, vanno sempre più al risparmio su tantissime voci, spesso ben oltre quelli che dovrebbero essere i limiti dell’accettabilità. Se non si hanno i mezzi per fare teatro, allora meglio non farlo (piccola provocazione).

Non mi stupirebbe sapere che molti validi compositori non vengono chiamati semplicemente perché costa meno inserire musica di repertorio; d’altra parte mi viene da pensare che se un regista è indeciso se affidare le musiche del suo spettacolo a un compositore o a Spotify, forse allora dovrebbe eliminarle del tutto. Credo che se un giorno ne avessi necessità non muoverei un dito senza aver trovato il compositore adatto.

Prossimi lavori in cui utilizzerai musica?

In questo periodo stiamo allestendo un testo di cui sono autore. Dirigo il lavoro da fuori, non mi sono voluto inserire nel cast. Utilizziamo parecchia musica, ma non eseguita dal vivo. Una scena è interamente basata sull’ascolto di musica ad alto volume, e in questo caso si tratta di musica classica, perché il personaggio in questione è un appassionato d’opera. In altri momenti usiamo dei suoni che ho realizzato io con il sintetizzatore, mi sono divertito a usare una Roland Juno che ho comprato qualche anno fa.

Altro che ti viene in mente a proposito?

Quando penso al mio rapporto con la musica mi viene sempre in mente Fantasia, di Walt Disney. Credo sia il mio cartone preferito. Racconta molto bene come un suono evochi sempre un’immagine. Le immagini non sempre parlano, ma il suono a mio avviso si vede sempre, ed è intrigante confrontare immagini più concrete, legate a storie precise, e suggestioni più astratte.

La musica perlopiù fa scattare qualcosa che è presente nella nostra memoria, ma a volte evoca solo forme, colori, proprio come avviene nel primo episodio di Fantasia, con la Toccata e Fuga in re minore di Bach. Quella per me è l’esperienza musicale più pura. Purtroppo al giorno d’oggi è molto raro riservarsi del tempo per ascoltare la musica senza fare nient’altro.

Nelle sale da concerto c’è un’attenzione maggiore, ma vorrei proprio sapere quanta gente si prende del tempo, almeno una volta al mese, per sedersi in poltrona a casa propria, mettere su un disco, e ascoltarlo e basta, senza fare altro. I miei nonni lo facevano spesso. A me per primo capita molto di rado, ma le poche volte che mi sono obbligato a farlo ho ottenuto risultati sorprendenti.

Articolo a cura di Sergio  Scorzillo

Condividi su:
Redazione
Redazione
La Redazione di Musica361 è composta da giornalisti, scrittori, copywriter ed esperti di comunicazione tutti con il comune denominatore della professionalità, dell'entusiasmo e della passione per la musica.
Top