Il cantautore romano che abbiamo conosciuto con il tormentone Vorrei cantare come Biagio e Ti regalerò una rosa, con la quale vinse Sanremo 2007, da qualche tempo si sta dedicando al teatro con buoni risultati. Musica361 ha incontrato Simone Cristicchi.
Dopo Magazzino 18, che racconta il dramma dell’esodo istriano, giuliano e dalmata di molti italiani costretti ad abbandonare la propria terra nel secondo dopoguerra, Cristicchi torna in teatro per raccontare un’altra storia italiana poco conosciuta ma sicuramente di grande fascino: vita, morte e misteri del mistico David Lazzaretti. Abbiamo colto l’occasione per fare con Cristicchi un bilancio della sua carriera tra musica e teatro.
Simone, è vero che la tua prima vera passione è stata il fumetto?
Il disegno è stata la prima manifestazione di un talento innato, fin da piccolo. Quando avevo 16 anni conobbi Benito Jacovitti che è stato per me il primo maestro d’arte. Proprio d’arte più che di disegno: è stato lui a insegnarmi il rigore dell’artista e soprattutto la ricerca di quel tocco che rende ogni artista unico e irripetibile. E trovare il mio stile, prima come fumettista e successivamente come cantautore, è stata una ricerca lunga.
Per dirla col titolo del tuo primo disco, quando hai capito di essere un Fabbricante di canzoni?
Mi ha formato molto ascoltare tanta musica d’autore. Poi ho cominciato a suonare: nei miei primi pezzi mi ispiravo un po’ goffamente ad un cantautorato alla De Gregori e De Andrè. Nel 1998, con lo spirito di chi vuole tentare una nuova strada, se fosse andata bene avrei continuato altrimenti lasciato perdere del tutto, mi iscrissi ad un concorso per cantautori in Abruzzo e vinsi. Con i soldi del premio mi registrai in SIAE, come autore e compositore. L’inizio del mio percorso musicale è cominciato quella sera d’agosto del 1998 davanti ad una piazza gremita da qualche migliaio di persone: quando le ho sentite applaudire per la prima volta ho capito che le mie canzoni potevano emozionare qualcuno. Da lì al vero esordio però passò un’altra decina d’anni.
Come si chiamava il pezzo con il quale hai vinto quel concorso?
L’uomo dei bottoni: parlava di un senzatetto che incontravo sempre alla fermata della metropolitana di Roma che prendevo per andare in Università. Mi aveva colpito la figura di quest’uomo che provava a vendere chincaglierie per lui preziose ma neppure considerate dai passanti.
Tra le tue prime vittorie anche il Cilindro d’argento al Festival “Una casa per Rino”, dedicato a Rino Gaetano. E poi la tua militanza nei CiaoRino, la più famosa cover-band dell’artista crotonese. Come è nato l’amore per Rino Gaetano?
È stato un amore a primo ascolto: ho sentito qualcosa di me nel suo modo di fare musica. Nelle sue canzoni convive la voglia di emozionare con testi che, insieme a contenuti profondi, esprimono anche un elemento grottesco: queste due anime hanno sempre convissuto anche nei miei dischi, penso a brani caustici ma che fanno sorridere come la mia Ombrelloni o L’Italia di Piero. Rino Gaetano resta indubbiamente uno dei miei riferimenti musicali e un nume tutelare per chi voglia divertirsi con la musica lanciando allo stesso tempo piccole frecciate.
C’è un suo brano che hai amato in particolare?
Le Beatitudini. Lo incisi anche per un album di cover dedicato a Gaetano, reinterpretandolo in una versione quasi punk.
In tema di interpretazioni hai cantato anche Questo è amore, firmata da Sergio Endrigo. Chiedo a te che hai avuto anche modo di conoscerlo personalmente: oggi viene degnamente ricordato?
Endrigo ebbe una vita molto avventurosa ed intensa, era un piacere starlo ad ascoltare. Era anche molto divertente, a differenza di quanti lo reputassero un musone. Come artista probabilmente avrebbe meritato e meriterebbe più attenzione, oltre che per i suoi successi come Io che amo solo te e Lontano dagli occhi, anche per il suo repertorio sudamericano, quello con Vinícius De Moraes, i dischi con Toquinho o le canzoni con i testi di Pasolini e Ungaretti.
Nel 2005 finalmente il successo con Vorrei cantare come Biagio, primo singolo che ha lanciato il tormentone Cristicchi. Ancora oggi molti ti ricordano prima di tutto per quella canzone: a distanza di più di 10 anni di carriera come vivi quel successo?
Quella canzone per me è stata indubbiamente una benedizione del cielo, nonostante la abbia scritta in un momento di grande sfiducia nel mondo della discografia. Quella che in principio poteva sembrare una presa in giro di Antonacci, in realtà ha rappresentato un pretesto per criticare il mondo discografico: in quelle strofe c’è il grido di chi non trova spazio per poter esprimere le proprie idee in musica. Ironia della sorte poi proprio quel brano mi ha fatto sfondare. Non posso che essere debitore a quella canzone, anche se, introdurmi nel mondo del mainstream con un tormentone ha anche rischiato di marchiarmi per tutta la carriera. Fortunatamente ho avuto una seconda opportunità altrettanto benedetta, il Festival di Sanremo 2007, occasione grazie alla quale ho potuto dimostrare di essere un cantautore e non una macchietta.
Vinci la 57° edizione del Festival di Sanremo con Ti regalerò una rosa (2007) e sempre in quell’anno esce il tuo libro Centro di Igiene Mentale. La follia è una tematica che sicuramente ti distingue nel processo artistico: qual è la cosa che più ti affascina di quel mondo?
Da bambino mi affascinava il mondo parallelo che sentivo vivere dai malati di mente. Poi, quando mi sono trovato ad indagare più a fondo la realtà della malattia mentale parlando con molti che avevano vissuto l’esperienza del manicomio, da psichiatri a infermieri fino agli stessi malati di mente, mi sono reso conto di quanto quella dimensione fosse invece dolorosa, fatta di emarginazione e pregiudizio e quanto ben poco avesse di così affascinante su cui speculare filosoficamente. Anche se abbiamo avuto esempi di personaggi la cui follia è diventata materia d’arte: insieme a “folli comuni” sono esistiti anche malati di mente come Van Gogh o Alda Merini. Non bisogna dimenticare però che quello che può pur apparentemente sembrare affascinante, nasconde sempre un grande dramma, qualcosa che ancora oggi gli scienziati non riescono a comprendere fino in fondo.
Come cantautore ti definiresti impegnato?
Non saprei dire se sono impegnato o no: mi piace raccontare storie di confine, argomenti di cui si parla meno, da emarginati. In queste storie, più che vero impegno sociale, trovo una grande poesia. Un tipo di poesia che mi fa piacere sentire: forse perché anche io in qualche modo mi reputo o mi reputavo un emarginato.
Lo scorso 15 novembre è stato pubblicato Il secondo figlio di Dio, il tuo romanzo sulla figura di David Lazzaretti, mistico toscano conosciuto come “il Cristo dell’Amiata”. Anzitutto come ti sei imbattuto in questo personaggio?
L’ho conosciuto frequentando il territorio del Monte Amiata, tra la provincia di Siena e Grosseto, terra nella quale la sua vicenda è ancora molto sentita. Ho scoperto che su questo mistico sono stati scritti molti saggi in Toscana ma a livello nazionale non è stato ancora abbastanza valorizzato per quello che ha compiuto: nell’arco della sua vita, singolare e avventurosa, riuscì a cambiare la realtà in cui viveva attraverso la forza delle proprie idee, fino alla tragica morte per il proiettile di un carabiniere. E a 180 anni dalla sua nascita ancora oggi è oggetto di culto: gli è stato persino dedicato un museo e un centro studi tutt’ora attivo nel suo paese natale, Arcidosso.
Perché hai intitolato il tuo romanzo, e il tuo nuovo spettacolo, Il secondo figlio di Dio?
Il secondo figlio di Dio si rifà alla sua proclamazione di “Cristo in seconda venuta” che costò al Lazzaretti un processo e una scomunica dal Santo Uffizio. Probabilmente se affermassi che Cristo è nato il 6 novembre del 1834 ad Arcidosso in Toscana sembrerei un esaltato ma devo confessare che i documenti che abbiamo sono puntellati da coincidenze e testimonianze inquietanti che per lo meno fanno venire qualche dubbio. È un mistero che cerco di indagare.
Cosa ti ha spinto a far conoscere David Lazzaretti?
In ogni secolo, nella storia dell’umanità, ci si imbatte in figure che sembrano giungere da un’altra dimensione a indicare una strada agli esseri umani e il Lazzaretti non fa eccezione: pur ampiamente studiato da Gramsci a Tolstoj, da Pascoli a Lombroso però è stato poi dimenticato. Le sue istanze di solidarietà, uguaglianza e istruzione proclamate a metà Ottocento però continuano ad essere molto attuali. Mi è sembrato doveroso raccontare il risultato di questa indagine, condotta in circa tre anni di ricerche, sia con uno spettacolo ma anche con un romanzo: ho creduto che questa potesse essere una bella sfida per me, sia come scrittore che come divulgatore. Il mio scopo principale e restituire a quest’uomo il posto che merita nella storia italiana: mi piacerebbe che il mio romanzo potesse diventare un nuovo “Codice Da Vinci”, diciamo il mio “Codice Lazzaretti”.
In questo spettacolo, come nel precedente, si alternano momenti recitati e canzoni: dato che nasci come cantautore, come ti sei trovato a conciliare queste due dimensioni?
Si tratta di uno spettacolo teatrale vero e proprio in cui interpreto più personaggi. Ci sono canzoni inedite che sottolineano alcuni momenti ma resta la performance di un attore che ha poco a che vedere col cantautorato. I testi delle canzoni, ispirate alle fonti sulla vicenda del Lazzaretti, mi hanno aiutato semplicemente a sintetizzare in forma musicale tante parole.
La maggior parte del pubblico al momento è abituato a legare il tuo nome ancora alla musica. Il tuo ultimo disco è Album di famiglia (2013): stai preparando qualcosa?
Dal punto di vista discografico non ho novità da segnalare. Continuo comunque a fare concerti e la musica rimane fondamentale per la mia carriera anche se ultimamente sto raccogliendo molto dal teatro.
Come stai vivendo questa esperienza teatrale che ti interessa ormai da qualche anno?
Sono impegnato a costruirmi una nuova credibilità artistica che spero non verrà tradita dal pubblico di sala, permettendomi di continuare a seguire questo meraviglioso percorso. Magazzino 18, lo spettacolo precedente, ha avuto 170.000 spettatori: è un piccolo merito che con tanta fatica mi appunto come una medaglia immaginaria. Quando mi sono proposto nel mondo del teatro, francamente non ho goduto da subito di tanta benemerenza ma ora mi ci sto dedicando con crescente impegno e dedizione: sicuramente al momento voglio continuare a proporre agli spettatori che acquistano un biglietto per venirmi a vedere qualcosa di affascinante e inedito che possa sempre intrigarli e appassionarli.