I talent show sono utili alla musica? Una lente di ingrandimento sul genere televisivo degli ultimi anni.
La fusione tra musica e televisione ha portato alla creazione dei Talent Show, un tipo di spettacolo che ha cambiato notevolmente il mondo della discografia. Ci sono state così tante edizioni dei diversi format nazionali ed internazionali che quasi si fatica a ricordare tutti coloro i quali hanno beneficiato della popolarità da talent.
Di questo poco ci importa, sarebbe inutile fare l’elenco dei vincitori. Ma se si pone la lente di ingrandimento sulla storia recente della discografia, possiamo notare come siano diventati una specie rara gli artisti emergenti o i cantautori, dissolvendo allo stesso tempo il ruolo del talent scout e la famosa sezione A&R (Artist & Repetoir) che esisteva in ogni etichetta.
Riflettendoci, la musica da talent è un prodotto da vendere, esattamente come uno spot pubblicitario, con delle peculiarità da rispettare per essere accattivante e acquistabile. In questo senso entra in gioco la tv, grazie ai numeri importanti dello share e grazie soprattutto all’ “emotainment”, come direbbe Carlo Freccero. L’intrattenimento emotivo è il succo della televisione del XXI secolo e con i talent show anche la musica è stata travolta da un’ondata di emozioni gratuite. Chi vince porta in alto la bandiera dell’amore e della pedagogia, generalmente.
Prendendo il caso di “Amici di Maria De Filippi”, un piccolo “C’è posta per te” per giovani amanti delle arti sceniche, il pubblico entra a contatto con i ballerini e i cantanti grazie alle loro storie personali, meccanismo che condiziona radicalmente il modo di concepire il singolo artista. Un tempo, nel pub sfigato in cui prendevi una birra per caso e ascoltavi un ragazzo esibirsi in una cover, poco importava se si fosse rotto una mano e per un anno non fosse più riuscito a suonare la chitarra, se in quel momento ti faceva venire i brividi allora c’era del puro talento. Tu chiamale, se vuoi, emozioni (cit.).
Ad oggi i cantanti che escono dai talent sono dipendenti da un’immagine costruita da un programma televisivo e da una major che ha deciso di investire sul target di quello show. L’artista resta solo un prodotto, un numero assegnato prima di un’audizione, una canzone virale che deve vendere per una stagione, che deve fare il disco d’oro, come una concessionaria automobilistica che deve raggiungere l’obiettivo di vendita annuale.
La domanda sorge spontanea: questo tipo di linguaggio può essere considerato artistico? Non è un caso che un personaggio storico del mondo della musica come Red Ronnie (http://youmedia.fanpage.it/video/ag/VkPpUOSwfhQdYu8g) abbia criticato aspramente il mondo dei talent, perché chi ha veramente a cuore l’identità musicale non può ritrovarsi a sfidare vicendevolmente un altro artista su canzoni scritte da terzi. Proprio il concetto di sfida è completamente opposto a quello dell’arte, intesa come condivisione e avvicinamento, ma rappresentata in tv come una lotta, uno schieramento, una divisione.
A questo punto è difficile sapere se chi partecipa ai provini sappia davvero a cosa andrà incontro, nessuno qui vuole distruggere dei sogni, ma se si vuole davvero vivere di musica c’è da chiedersi veramente se sia meglio farlo con una propria identità o con un’immagine costruita. Sicuramente con la seconda strada proposta si fa prima e si guadagna di più, soltanto se vinci e se vendi, ma se perdi che fine fai? Il gioco sembra non valere la candela.
A mio parere, riprendendo le parole di Red Ronnie, se Battisti e Mogol, Guccini, De Gregori, De Andrè o Dalla, avessero avuto un’audizione ad XFactor, oggi sarebbero dei cognomi comuni, perché a loro modo non erano pop, non piacevano a tutti per forza, bisognava ascoltarli per capire cosa volessero dire. Proprio così, perché la musica, prima di tutto, andrebbe ascoltata.