La digitalizzazione musicale ha portato maggior fruizione del prodotto, ma ricavi differenti. A causa del value gap pare che molte canzoni non beneficino dei propri diritti.
Da quando il digital è entrato a far parte dell’industria musicale, i ricavi sono cambiati notevolmente. Il primo rovescio della medaglia della digitalizzazione è stata la pirateria informatica, la quale ha iniziato un percorso parallelo alla canonica fruizione del prodotto discografico.
Nel concetto di pirateria è implicita la domanda: “Perché devo pagare se posso averlo gratuitamente?”, l’unica risposta plausibile la si può trovare nell’etica. Come non è eticamente corretto evitare di pagare un muratore che ha costruito una casa, allo stesso modo non è giusto snobbare il lavoro di un artista e di tutti i suoi collaboratori.
In tutto questo, c’è da dire che la pirateria è sempre stata vista come un gesto consapevole dell’utente, che decideva di scaricare una traccia senza passare da iTunes. Poi è nato Youtube e il mercato è cambiato ancora di più. Le vendite dei CD si sono abbassate, ma l’ascolto della musica è paradossalmente aumentato. Questo perché Youtube ha dato vita ai “Creator”, i creatori di contenuti, utenti che possono intrattenerne altri gratuitamente e in qualsiasi modo. A tal proposito, tra video di gattini e cover musicali, hanno preso vita i “Lyrics Video”, canzoni con il proprio testo riproposto in formato video, in puro stile karaoke. Questa è stata la vera rivoluzione, perché, rispetto alla pirateria, tutto questo era legale (e lo è ancora).
Arriviamo ad oggi, 2017, epoca in cui si ascolta musica in ogni modo e maniera, tanto che dal 2015 i ricavi della musica digitale hanno superato quelli del mercato fisico. Tra streaming e video si è sollevata una questione molto delicata in materia di business musicale: il value gap. In breve, il mercato discografico trova sconveniente che alcuni utenti, su piattaforme come Youtube, abbiano caricato canzoni da cui non arrivano introiti, mentre alla piattaforma proprietaria arrivano eccome. Quindi, secondo l’industria, Youtube incasserebbe tramite la pubblicità e le visualizzazioni, destinando un somma di denaro inferiore (o nulla) a chi detiene i diritti del creato.
Per combattere questa “discriminazione remunerativa” molti artisti hanno firmato e inviato una lettera alla Commissione UE, tra questi vi sono i Coldplay, gli Abba, Lady Gaga, Duran Duran, Ed Sheeran, i Maroon 5, Bruno Mars, Christina Aguilera e tanti artisti italiani tra cui Zucchero, J-Ax, Annalisa, Biagio Antonacci, Daniele Silvestri, Fedez, Federico Zampaglione, Fiorella Mannoia, Gigi D’Alessio, Elisa, Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Enrico Ruggeri, Francesco De Gregori, Tiziano Ferro, Subsonica, Il Volo, Piero Pelù, Emma Marrone, Samuele Bersani e molti altri (Fonte: Repubblica).
Youtube si è difesa spiegando che la maggioranza delle etichette e degli editori ha accordi di licenza in essere con il sito e che nel 95% dei casi sceglie di lasciare i video caricati dai fan sulla piattaforma per trarre guadagni da essi. L’opinione dei musicisti è molto diversa, al punto da mettere sotto accusa il Content ID, sistema che consentirebbe a Youtube di identificare i contenuti protetti caricati in modo da offrirne la monetizzazione agli artisti.
Viste le problematiche legate a questo sistema e al suo relativo algoritmo, il quale sembra non riuscire ad identificare tutti i caricamenti da monetizzare, gli artisti sarebbero costretti a segnalare i contenuti da monitorare “manualmente”, qualcosa di impossibile considerando l’immensità del web e di questi servizi. La tutela di queste piattaforme è dovuta al Safe Harbour, una normativa introdotta nel 2000 che permette l’utilizzo online di opere protette da copyright per fornire un servizio ai consumatori. Per il mondo della discografia il Safe Harbour non permette di garantire i giusti compensi al mercato musicale.
La questione è scottante e non sappiamo ancora in che modo si risolverà. Nonostante la musica sia in un periodo ascendente, ogni singolo ascolto in un servizio di streaming/video favorisce la fruizione, ma diminuisce le probabilità di vendita. Ormai accade di rado di comprare un disco senza averlo prima ascoltato in streaming. Se un tempo un album poteva costare mediamente intorno ai 15 euro, oggi con iTunes si trova a 9,99 euro e se lo ascoltiamo tutto in streaming il valore per ogni visualizzazione si abbasserà ancora di netto. Se foste un artista che ha speso 10.000 euro per la produzione di un disco, cosa pensereste vedendo il vostro lavoro valutato dagli 0.006 agli 0.0080 euro per ascolto?