Fabrizio De Blasio: “Con la fotografia cerco di far vedere “quello che è invisibile agli occhi”
Fabrizio De Blasio, romano, quando adolescente riceve in regalo la prima macchina fotografica, è amore a prima vista. Da lì un destino tracciato e una “partenza” contromano, visto la carriera militare del padre che lo avrebbe visto volentieri indossare la stessa divisa.
Una carriera che lo porterà a collaborare con i più grandi fotografi italiani e stranieri, da Michel Comte, Walter Chin, Oliviero Toscani, Gian Paolo Barbieri ad Alberta Tiburzi.
Oggi aspetto il suo rientro da uno dei tanti set dove lavora e non è difficile intuire da subito, come la fotografia e l’arte siano un tutt’uno in lui: un viaggio dove la sfida è mostrare qualcosa che “è invisibile” agli occhi degli altri.
La sua, una galleria di ritratti importanti dai Premi Oscar Colin Firth, Marion Cotillard a Gina Lollobrigida, Ornella Muti, Terence Hill, Lino Banfi, Raul Bova, Alessandra Mastronardi, Pierfrancesco Favino, Gianni Morandi e moltissimi protagonisti del cinema italiano e internazionale.
Fabrizio De Blasio parlami di te…
Sono un figlio degenere, perché mio padre generale dell’esercito, avrebbe desiderato che seguissi le sue orme, ma a quindici anni, con la prima macchina fotografica, ho deciso di fare altro nella vita. Ho frequentato il liceo scientifico e poi, solo per temporeggiare e non partire per il servizio di leva ancora obbligatorio, mi sono iscritto all’università.
Era chiaro che mio padre non avrebbe usato la sua posizione per non farmelo fare, anzi! Ad un certo punto lessi che a Roma, aveva aperto uno studio fotografico importante e proprio lì, cominciai facendo lo schiavo. Dal mio punto di vista uno schiavo di lusso visto che avevo il privilegio di spazzare davanti a Richard Avedon, uno dei fotografi di moda più grandi al mondo, in quello che era lo studio di riferimento di riviste di moda come Vogue e Harper’s Bazaar.
Da lì, per qualche anno, feci l’assistente per poi, piano piano, cominciare a fare i miei primi lavori. Il militare, alla fine, l’ho fatto, l’unica cosa nella quale mio padre mi ha dato una mano, è stato permettermi di farlo come fotografo dell’esercito. Devo riconoscere che è stata un’esperienza formativa, che ha avuto il suo perché: con buona pace di tutti, in realtà ho fatto quello che mi piaceva onorando anche la divisa.
Ti sei mai pentito delle scelte fatte?
Non mi sono mai pentito, ma tante volte mi sono chiesto se avessi fatto la scelta giusta. La fotografia è un hobby meraviglioso, il difficile sta nel farlo diventare il mestiere col quale pagare le bollette. Sarebbe disonesto dire che non sia stato impegnativo, ma quello di cui sono assolutamente certo, è che sia il mio mestiere.
Che fotografo sei?
Nasco ritrattista, la maggior parte del mio lavoro è questo. Il cercare l’anima del soggetto, non è una leggenda metropolitana, è vero ed è l’obiettivo di chi fa questo genere di fotografia, ma si scontra con determinati contesti dove hai pochissimo tempo e spazio, dovendoti accontentare.
Quando hai un grande attore da ritrarre, sarebbe molto bello poter “arrivare” a oltrepassare quella soglia, per vederlo davvero, ma solo in alcuni casi, è possibile. È molto bello quando si instaurano dei rapporti continuativi nel tempo, che spesso sfociano anche in bellissime amicizie.
Con Gianni Morandi, per esempio, ci siamo conosciuti sul set della fiction L’Isola di Pietro, da lì lui mi ha voluto anche per i concerti e oggi ci sentiamo spesso anche solo per il piacere.
Quando guardi nell’obiettivo, cosa cerchi?
Quando è la prima volta, innanzitutto, voglio arrivare all’appuntamento preparato: studio la biografia, guardo gli scatti che altri hanno già fatto, cercando di trovare appigli utili a capire chi ho davanti e rompere il ghiaccio, per metterlo a proprio agio il più possibile. Utilizzo anche la musica, che è di notevole aiuto, sempre.
Devo dire che ogni situazione è storia a sé e non ci sono regole, ma identità uniche, ma questo è il bello di un mestiere che non annoia mai. Lavorando spesso con gli attori, mi sono reso conto che non necessariamente sono a proprio agio davanti all’obbiettivo. Sul set sono abituati a dimenticare la macchina da presa, ci sanno convivere.
Inoltre, quando stanno recitando hanno comunque un ruolo da interpretare che mette al riparo da occhi indiscreti il loro io, che invece nel ritratto vado a svelare. Quando poi il soggetto è uno scrittore o un manager, l’impresa è ancora più complicata: il loro mestiere è un altro e soffrono nel sentirsi fuori posto.
Hai avuto il privilegio di fotografare premi Oscar, di stare su set prestigiosi delle fiction più amate e di film importanti. Quali sono, tra i tanti, i lavori che ti hanno segnato di più?
Ho girato davvero ovunque nel mondo e ho scattato fotografie importanti che mi hanno dato molta soddisfazione professionale. I lavori che mi hanno però, segnato di più e che lasceranno una traccia indelebile, sono state delle campagne no-profit, di sensibilizzazione per le adozioni a distanza in luoghi dimenticati come Bolivia, Madagascar, Pakistan.
Questi reportage, mi hanno scaraventato dentro a realtà crude, che non riusciamo neanche ad immaginare. Essere lì e vedere di persona, toccando con mano, ha un sapore amaro: la mancanza di elettricità, per esempio, che per noi è data sempre per scontata, al punto che un blackout anche di pochi minuti, può destabilizzarci (soprattutto se abbiamo il cellulare scarico!) è all’ordine del giorno.
Ricordo che portammo in Madagascar un container di biciclette, ed io stupito, chiesi come mai di tutto quello che potevano avere necessità si portassero cose che mi sembravano di secondaria importanza. Mi fu spiegato che i bambini facevano tre, quattro chilometri per andare a scuola tutti i giorni a piedi andata e ritorno e l’avere una bicicletta li avrebbe facilitati non poco.
Questa rubrica è un Invito al viaggio, un viaggio che idealmente intraprendiamo attraverso gli scatti del fotografo che ci permette di guardare attraverso non solo il suo obiettivo, ma quella che è la nostra camera oscura, l’anima. Con te Fabrizio, che viaggio facciamo?
Ci fu un grande fotografo che disse, una cosa interessante: per me l’ideale sarebbe fotografare con gli occhi, solo come vedi tu, senza dover interagire con un mezzo tecnico. Per me è fondamentale avere una suggestione visiva, immediata.
Quando si scattava in pellicola bisognava avere davvero una grande professionalità, oggi il professionista deve essere in grado di dare di più, perché chiunque, grazie alla tecnologia, può fare delle fotografie “decorose”.
Devi davvero mostrare quello che agli altri non è dato di vedere, nonostante apparecchiature sofisticate. Sarebbe troppo semplice e banale, possedere tutti gli ingredienti di un grande chef, la sua cucina e diventare stellati: la fotografia è arte.
Cosa preferisci, quando puoi fotografare liberamente?
Non ho dei generi preferiti, mi lascio attrarre dalle cose più svariate, che può essere il fiore, il rilesso nella pozzanghera. In una pausa di un set, su Ponte Sant’Angelo, me ne stavo seduto con la macchina fotografica per terra.
Mi colpì in quella posizione, la varietà di calzature dei turisti. Vedevo solo piedi, col taglio sotto il ginocchio: ho scattato tantissime fotografie casuali, senza spostare la macchina e senza guardare nell’obbiettivo.
Ci sono scuole di pensiero molto diverse: poca post-produzione o al contrario una sorta di make-up fotografico. Le fotografie di Fabrizio De Blasio cosa prediligono?
Essendo nato con la pellicola e lavorando molto con l’editoria, dove utilizzavamo la diapositiva, che aveva molta poca tolleranza, sono abbastanza purista. La foto devi saperla illuminare e farla bene a partire dallo scatto. È lì che devi dare qualcosa in più, devi cogliere la sua essenza.
In quale ambito lavori maggiormente oggi?
Ho sempre fatto incursioni sui set, ma in questi ultimi anni, devo dire che lavoro molto con le produzioni, perché è l’unico settore che non si è mai fermato. Anche nel periodo di pandemia, chiusi come in una bolla e tamponi come se piovesse, ne ho collezionati più di cento cinquanta, è andato avanti.
Ti lasci fotografare di buon grado?
Non mi punto una pistola alla tempia, non è una tragedia, ma dopo due minuti mi sono stufato. Sto meglio dall’altra parte. Mi sono divertito di più, lo ammetto, quando mi è stato chiesto di interpretare il fotografo sul set!
Ci salutiamo e nel farlo, Fabrizio mi confida di avere un sogno nel cassetto: un progetto legato alla polaroid con cui fare arte. La sua determinazione è stata la prima a colpirmi e sono certa che presto anche a Roma o in qualche importante Galleria del mondo, troveremo realizzato questo suo sogno. Buon viaggio e buon vento, Fabrizio. Grazie di tutto.