Zvrzi: “L’ultimovocale”, un’accattivante ritmica e un testo condivisibile rendono la traccia spiccatamente radiofonica
Daniele Zurzolo, in arte Zvrzi, è un artista torinese che inizia a scrivere e a suonare all’età di 16 anni insieme ad alcune band locali. È un grande sperimentatore pop rock; il suo nuovo singolo narra il racconto di frammenti di quotidianità e il titolo rimanda a dinamiche di vita che tutti abbiamo vissuto almeno una volta. Il brano parla, con sonorità allegre e apparentemente spensierate, del modo in cui una storia d’amore giunge al capolinea. Non si tratta solo di musica per stare male, ma anche di un brano vintage quanto attuale. Un ultimo vocale per mettere un punto e ricominciare da capo.
Benvenuto tra noi Daniele! Come ti sei appassionato al mondo della musica?
Mia madre è appassionata di cantautorato e mio padre di musica pop, ho incrociato questi due filoni. Loro non sono musicisti, infatti mi ci sono cimentato da solo quando frequentavo le scuole medie. Ho capito che era la mia vocazione e l’ho seguita, ho sempre suonato come strumentista e come bassista e nel frattempo ho scritto coltivando la mia più grande passione, l’atto creativo, che trovo molto più stimolante.
C’è uno strumento che prediligi di più rispetto a quelli che hai studiato?
A livello personale sono un bassista, la chitarra la suono discretamente bene ma la utilizzo per i miei live o per la scrittura, accompagna la mia penna. Il mio strumento principale è il basso elettrico, mi diverte molto suonarlo anche in un contesto di band.
La scelta del tuo nome d’arte da dove viene?
Dal mio cognome, Zurzolo; i miei amici mi hanno sempre chiamato Zurzi, nel 2012 è nato il progetto Zurzi scritto con la U, però nel logo c’era la V, richiamando fortemente il latino. Nel 2014 ho interrotto questo progetto perché ho fondato i The Buskers Street Band con il gruppo con cui ho suonato per 8 anni, facendo numerosi concerti. Solo 2 anni fa ho ripreso il mio progetto lavorando sulla produzione e creando un nuovo profilo social.
Che differenze hai trovato nel lavorare con una band e da solista?
Sono sempre stato fan delle band. Sono due approcci completamente diversi. Con la band è molto più complicato perché potrebbero venir fuori intenti diversi tra i componenti. Però a livello di sound, se la band funziona, è molto più facile perché si ha già un’identità sonora da cui ripartire. La band vera è una band che lavora in sala, crea, ha un sound tutto suo, utilizza sempre quegli strumenti e segue un format ben preciso; i componenti danno un’impronta particolare. Bruce Springsteen diceva che le band sono una bomba ad orologeria, frase perfetta che condivido. Da solo invece vai più veloce perché sai già come muoverti, hai le tue idee, è meno democratico e più indipendente.
A Torino, la tua città d’origine, che clima musicale si respira? Che sbocchi ti dà?
Torino è la città delle band: Subsonica, Africa Unite, ha una scena di questo tipo. A livello professionale sicuramente offre meno possibilità rispetto a Milano e Roma. Però al tempo stesso rimane molto interessante, nessuno la sposa ma tutti la guardano. A livello di tendenze è proprio qui che scopri le cose più cool, senza dubbio. È bella artisticamente però rimane fine a sé stessa. Quello che fai in 10 anni a Torino lo fa in 2 mesi a Milano.
La tua città ispira la tua penna?
Assolutamente sì, ti influenza spingendoti a creare qualcosa di diverso. Ho una scrittura molto cinematografica che va molto per immagini e Torino mi dà sempre la giusta ispirazione. L’aspetto positivo di questa città è che è molto eterogenea a livello di sonorità, è meno mainstream, non c’è omologazione, sei meno condizionato, però spesso questo aspetto funziona di meno. È una città alternativa per chi vuole sperimentare.
Adesso parliamo del tuo nuovo singolo, “L’ultimovocale”: com’è venuto fuori e che significato ha per te questo brano?
È un pezzo nato al pianoforte che mi è piaciuto fin da subito, è un racconto fatto di immagini che narrano alcuni momenti specifici vissuti. Il ragazzo della copertina è Fabrizio, un mio caro amico, che ha scelto il titolo. La canzone stessa è una fotografia istantanea, ognuno all’interno può cogliere le sfumature che vuole.
I messaggi vocali sono molto ricorrenti nelle nostre giornate. Come ti ci sei soffermato?
L’idea era quella di una chat con una persona importante con la quale non hai più rapporti o comunicazione e rimane questo ultimo vocale appeso. Inviato o ricevuto è di libera interpretazione dell’ascoltatore.
Che rapporto hai con il tuo pubblico?
È molto fidelizzato ma non ho un pubblico enorme. È un pubblico interessante e interessato, fatto di gente colta dal punto di vista musicale e non. Mi piace definire il mio genere un pop raffinato e di nicchia, piace a chi ha dei gusti più ricercati.
Come vivi le serate live con la tua gente?
Sono dei momenti di forte condivisione, osservo le emozioni che prova il pubblico, ricevo dei feedback inaspettati.
C’è una strofa che hai scritto alla quale sei particolarmente legato o affezionato?
Proprio nel nuovo singolo c’è una strofa molto bella che dice:
“ora ti manca il mio organetto che ti sveglia con Bob Dylan
con un bacio sulla guancia che c’hai i nervi la mattina
la mia sveglia, Frosinone di Calcutta
te ne rendo conto adesso solo adesso che mi hai perso
siamo un concerto i testi non li sai,
quei giorni a letto che non ti alzi mai con Mare Fuori su Raiplay”
Hai trovato delle difficoltà durante la tua gavetta?
Le difficoltà ci sono di continuo, è molto caotico l’ambiente musicale in questo momento. Mi reputo fortunato ad avere una mia fetta di pubblico, piccola o grande che sia poco mi importa. Conosco la mia gente, so a chi è indirizzata la mia musica.
Progetti in cantiere?
Sto scrivendo per altri artisti e sto continuando a lavorare sul mio disco.
Qual è il sogno musicale più bello che speri di realizzare?
Fare dei bei dischi e dei bei tour. La prima soprattutto perché credo che la seconda sia una conseguenza.
Il Daniele di oggi si rimprovera qualcosa se si guarda indietro nel suo passato?
Probabilmente non dovevo interrompere il progetto Zurzi, però col senno di poi forse non avrei scritto quello che ho scritto adesso, la fase di stacco mi è servita.
Articolo a cura di Simone Ferri